L’Ordine di Vittorio Veneto e la legge che manifesta la fratellanza dei popoli.

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Appeso ad un muro del corridoio di casa dei nonni da ragazzetto ero attratto fortemente da un piccolo quadro in cui incorniciato faceva bella mostra di sé un attestato. 

 

Più del diploma mi attraevano le due medaglie che scorgevo oltre il vetro, una tonda e una a forma di croce.Si trattava del riconoscimento di “Cavaliere di Vittorio Veneto” al papà del nonno, si chiamava Francesco, classe 1899. Io non avevo ricordo di lui, era morto un paio di mesi dopo la mia nascita nel marzo del 1982, per cui mi affidavo ai nonni per i racconti sulla sua vita.

Due aspetti del capostipite della mia famiglia a Veglie mi intrigavano più di ogni altra cosa: il primo riguardava l’appartenenza del papà del nonno al famigerato gruppo dei “Ragazzi del ‘99”, circostanza che inorgogliva il figlio che raccontava con abbondanza di particolari il percorso militare del padre all’epoca appena maggiorenne, il secondo era il fatto che per campare la famiglia il nonno Francesco avesse fatto il “Nachiro” e per esercitare la sua professione agli inizi degli anni ’50 avesse deciso di lasciare la natia Miggiano ed emigrare nel territorio vegliese di gran lunga più ricco di oliveti (ma questa è un’altra storia).

L’Ordine di Vittorio Veneto fu istituito con legge 18 marzo 1968, n. 263 nel cinquantenario della vittoria italiana nella prima guerra mondiale al fine di «esprimere la gratitudine della Nazione» a tutti i soldati italiani che avevano combattuto almeno sei mesi durante la prima guerra mondiale. Una gratitudine dimostrata con il suddetto diploma, ma anche con il pagamento di un assegno vitalizio senza reversibilità di 60.000 lire annuee. A capo dell’ordine fu designato il presidente della Repubblica, il primo a presiederlo fu Giuseppe Saragat.

In un momento storico come il nostro in cui la memoria pare essere un elemento da relegare alla capienza più o meno grande di un calcolatore elettronico o ad una “nuvola” virtuale dalle proporzioni indefinibili, pensare che un popolo intero si sia occupato dei suoi figli combattenti attraverso l’azione diretta del suo capo di stato a cinquanta anni di distanza dalla fine dell’evento bellico più sanguinoso di cui l’Italia abbia avuto  esperienza diretta crea un certo effetto. Quanto questa memoria si voglia tenere viva a cent’anni di distanza non è facilmente percepibile. Soprattutto non se ne percepiscono bene gli obbiettivi. Si vorrà ricordare la vittoria del 1918 come emblema della cacciata dello straniero? Si vorrà esaltare il combattimento come azione salvifica e redentrice rispetto alla necessità obbligata del dialogo? Oppure non sarà forse necessario fare tesoro di un insegnamento forte e profondo che possa produrre moniti attenti e scrupolosi circa la totale idiozia di ogni guerra? Non sarà opportuno continuare ad interrogarsi sul senso assoluto delle parole di Ungaretti quando afferma che “È il mio cuore Il paese più straziato”?  Non sarà doveroso riconoscere nella costruzione europea un sogno di benessere e pacificazione che ci ha accompagnati per lunghi anni?

La legge di cui sopra previde che potessero beneficiare dell’assegno e dell’onorificenza anche quei combattenti dell’esercito austro-ungarico (quello dei nostri “nemici”) che avessero partecipato alla guerra nel periodo 1914-1918 e che fossero divenuti cittadini italiani per annessione dei territori conquistati. Nel 1968 questa legge ha superato il concetto di sovranismo sancendo il concetto di cittadinanza, ha dipanato la questione dello ius soli manifestando la fratellanza dei popoli.

Angelo Cipolla

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