LETTERA DI ANTONIO GRECO IN RICORDO DI GIUSEPPE CUTRINO
Lunedì sera, alle 20,30, il Consiglio Comunale era convocato, dopo la recente scomparsa di un consigliere comunale, per sostituirlo. Pochissimi cittadini in aula e un clima freddo e formale. 19 i consiglieri presenti, un solo intervento.
Giuseppe Cutrino non ha bisogno più né di fiori né di parole. Nemmeno delle mie. Ma la dignità del Consiglio, la più importante istituzione democratica di un paese, per cui e in cui ha lavorato per anni, richiedeva, a mio avviso, che questo triste passaggio non restasse senza il racconto e il ricordo di un suo generoso componente.
Consiglio Comunale
10 febbraio 2014
Per Giuseppe Cutrino
Tre brevi parole: una su Giuseppe, una a Giuseppe e una riferita a noi.
1. Una parola su Giuseppe
Nel 1993, quando iniziai il mio impegno amministrativo a Veglie, di Giuseppe non conoscevo nulla.
Tra i compagni di cammino della prima ora Giuseppe non c’era. Si è aggregato nel 2000. Sono stato con lui consigliere di opposizione nella amministrazione Carlà e consigliere di maggioranza in questa di Aprile. Ma dei compagni di strada più vicini di ieri, in quest’ultimi mesi e in quest’ultima faticosa esperienza amministrativa, era rimasto l’unico con cui dialogare e con cui confrontarmi, con stima e serietà.
Giuseppe era uomo di partito, uomo del sindacato e uomo della scuola. Mi affascinava questa sua triplice funzione perché mi ricordava ciò che don Milani aveva scritto in Lettera ad una professoressa: “il fine giusto (di una vita autentica) è dedicarsi al prossimo. Si ama con la politica, con il sindacato, con la scuola”. Don Milani scriveva in altri tempi (anni ’60) ma la sua convinzione nasceva da una attenta lettura della Costituzione che, anche in tempi come i nostri in cui la politica e il sindacato sono denigrati e degradati, rimane il nostro radar, la bussola per le enormi sfide di un inquieto presente.
In un paese del sud, come Veglie e tanti altri, in cui dilaga un ceto medio egoista, chiuso negli interessi corporativi e poco interessati al bene comune; in cui tra la crisi del governo locale e i bisogni del cittadino non esistono più i corpi intermedi che raccolgono istanze reali da soddisfare e regolare; in un paese del sud, come Veglie e tanti altri, in cui nella politica locale trionfano partiti ridotti a comitati elettorali a servizio di capetti inadeguati, pronti solo ai privilegi e al maneggio di denaro pubblico; in un paese del sud, come Veglie e tanti altri, in cui il sindacato è spesso ridotto solo a riempire carte per pensioni dovute e non dovute a cui, magari, fare la cresta; in un paese del sud, come Veglie e tanti altri, in cui la scuola appare luogo estraneo e recinto per parcheggio giovanile, non è facile trovare un uomo come Giuseppe, amministratore, sindacalista e insegnante di sostegno, con queste tre funzioni connesse e reciprocamente feconde. Le tre funzioni esercitate da Giuseppe erano unite in lui perché avevano una radice che le alimentava. Giuseppe era un radicale (cioè aveva una radice), non un settario. La differenza tra radicale e settario si basa sul fatto che il radicale cerca in primo luogo di comprendere criticamente quali siano le principali sfide collettive e personali del mondo in cui vive, senza evadere dalla storia. In secondo luogo, il radicale realizza tutte le scelte di ogni giorno nel confronto con queste sfide. Il settario, invece, (setta deriva da sequor = seguire) segue analisi e consegne di altri. Chi ha elaborato questa distinzione tra radicale e settario (P.Freire) ha chiarito che il radicale riflette e agisce sempre in forma “critica e amorosa, umile e comunicativa”; il settario, invece, è fanatico, ha ragione sempre lui e “gli altri non capiscono nulla”.
Giuseppe mi rimproverava, per es., di non credere ai partiti. Lui per anni era stato un uomo di partito, con forti motivazioni ma anche con una sua testa, e, in quest’ultimi mesi, anche con autonomia e rottura. Mi accusava di essere un movimentista. Gli dicevo che sì non ero mai stato in un partito ma che non era vero che ero contro i partiti. Non ci capivamo su questo punto perché noi due avevamo una formazione molto diversa. Pur con questa distanza di fondo, Giuseppe non ha mai rifiutato di condividere con me le battaglie di questi anni per la difesa dell’ambiente, della salute dei cittadini, per una amministrazione trasparente, innovativa, partecipata, attenta a dare spazio a cittadini responsabili; aveva condiviso con me e spinto per una azione di governo locale che guidi i dipendenti comunali senza lasciarsi da essi guidare, per una azione amministrativa rispettosa delle norme e intransigente verso privilegi, clientelismi e compromessi a ribasso.
Voglio ricordare solo due suoi obiettivi amministrativi su cui voleva essere aiutato: realizzare una struttura sociale, con i fondi del Gal, per categorie svantaggiate e realizzare una cooperativa sociale per l’energia alternativa sui tetti delle case dei vegliesi. Non erano solo iniziative o sogni estemporanei. Erano i segni visibili di quella radice che a livello personale si traduceva nelle funzioni di insegnante di sostegno, di sindacalista e di amministratore comunale ma che era necessario che si estrinsecasse in fatti sociali e pubblici.
2. Una parola a Giuseppe
Giuseppe era un laico ma con una profonda vita interiore. In questa aula del Consiglio comunale, non è fuori luogo toccare anche questo aspetto della tua vita, caro Giuseppe. Tradirei me stesso se tacessi su questo aspetto.
Era la sera del 30 dicembre 2013. Era convocato il consiglio comunale. Eravamo in quest’aula e per mezz’ora aspettammo un consigliere che tardava. Seduti accanto, capii che volevi chiacchierare. Mi dicesti che ti erano piaciuti gli auguri scritti di Natale che anche a te avevo inviato. Ti raccontai che erano nati dal viaggio di studi, con mia moglie e con amici delle Marche, a Gerusalemme. Eri attento al mio racconto ma apristi con stupore i tuoi occhi quando ti dissi che ero tornato dalla Palestina con questa convinzione: “Dio e la religione sono incompatibili, l’uno esige l’eliminazione dell’altro”. “Interessante ….. mi interessa molto quello che dici” – mi dicesti dopo un breve silenzio.
Dal tuo mondo interiore, travagliato da tanti “perché” per una vita che si stava spegnendo, ho sentito salire da quel “mi interessa molto” un grido eloquente che esprimeva il bisogno di capire come in “un uomo laico” si possono saldare insieme morte e vita, senza illusioni, senza fughe e senza pie menzogne.
Grande è il mistero della morte soprattutto perché ha due facce: morte nemica-morte amica; morte odiata-morte desiderata; morte scansata-morte cercata; morte temuta-morte invocata. Se davvero grande è il mistero della morte, ancora più grande è il mistero della vita. Caro Giuseppe, a quel tuo “mi interessa molto” non ho fatto in tempo ad aggiungere che non avevo parole mie da comunicarti ma che la convinzione di cui ti parlavo (“Dio e la religione sono incompatibili”) nasceva da una lettura del Vangelo a servizio della giustizia, mai del potere. Ora, dopo più di un mese da quella sera, tu non ci sei più. Mi domando, anch’io da laico, perché è più grande il mistero della vita del mistero della morte? Nel dolore ho provato a riferire a te una parola del Vangelo di Luca al capitolo 20; dice Gesù di Nazareth: “il mio Dio (non quello della religione) è quello che sta dalla parte della vita” e assicura che “quelli che per noi sono morti, per Lui sono vivi, perché per Lui vivono tutti”. Mi piace questo verbo al presente: “vivono” non dice “vivranno chissà quando, in un futuro remoto, in uno spazio lontano”.
Caro Giuseppe: “per me (e per tutti noi) sei morto, per Lui anche tu vivi ancora”.
3. Una parola riferita a noi.
Senza dimenticare ipocritamente i limiti e le fragilità, che sono di ogni uomo, non ricordo di aver sentito, in questi ultimi anni, critiche ma parole positive per Giuseppe, anche se i vincoli che legavano noi consiglieri a lui erano più o meno stretti. La morte di Giuseppe è stata pesante per i suoi cari, in particolare per moglie e figlio, ma anche per questo Consiglio comunale. Per i tempi in cui è avvenuta e per il vuoto che lascia. E non parlo del solo mandato di consigliere. Quello si riempie con un atto formale. Parlo del vuoto che resta aperto perché non c’è nulla che possa sostituire l’assenza di una persona motivata ad una causa. Non i ricordi, non i progetti incompiuti né la motivata convinzione di Giuseppe che questa amministrazione non dovesse essere interrotta.
E’ stato detto che “la maggiore infedeltà nei confronti di un morto è continuare ad essergli fedele” (don Milani). E’ chiaro perché. Non si può dire: “Facciamo questo o non facciamo questo per Giuseppe”. La realtà scorre, la vita cammina, i problemi cambiano. Ora davanti ad essi rimaniamo noi e solo noi con le nostre responsabilità e le nostre scelte. L’amicizia di Giuseppe per me è stata un dono prezioso da conservare come un tesoro nascosto ma non so dirvi se la sua morte e il vuoto sempre aperto che mi ha lasciato sono una sfida a continuare o una resa a dire basta.
Veglie 10 febbraio 2014
Antonio Greco