In questo periodo stanno tornando in auge due pratiche purtroppo oggi dominanti nel modo di fare politica in Italia:
l’elettoralismo da una parte e la provocazione dall’altra.
Cominciando dall’elettoralismo, c’è la percezione diffusa che la politica debba essere intesa unicamente in chiave elettorale.
Ovviamente niente di più sbagliato perché le elezioni, per un politico autentico e genuino, dovrebbero essere il punto di arrivo di un percorso di lotte ed azioni costanti profuso per anni sul territorio in difesa dei diritti civili, sociali e ambientali. In parole povere, dimostrando alla gente comune che ti sei impegnato in modo spassionato e disinteressato per difenderli dalle angherie ed ingiustizie di coloro che si ritengono più forti e fanno pesare questa loro prepotenza ogni giorno sull’insieme della collettività.
Invece ciò che accade in questi anni è radicalmente diverso.
Eccezion fatta per diverse coraggiose realtà associative e sindacali (e per fortuna che ce ne sono ancora moltissime) i partiti e la gente comune sono generalmente assenti dalle grandi battaglie politiche che si fanno o si cercano di fare quotidianamente a livello territoriale in Italia.
Questo perché anche fra i candidati più onesti si è fatta strada la percezione che la politica conta e si fa soltanto se si viene eletti.
Questo modo di pensare tende a svuotare progressivamente la politica dal suo significato originario e a ridurla ad una semplice attività di funzionario che si traduce in una attività in sede istituzionale limitata ad una sterile quanto inconcludente alzata di mano.
E’ chiaro che considerando la politica soltanto in funzione elettorale, poi idee, ideali e principi vadano a farsi benedire e che al loro posto trovi sempre più spazio un mercimonio di voti che nulla ha a che fare con la democrazia e che apre la strada ad amministrazioni mediocri quanto impresentabili o peggio ancora alla penetrazione agevolata di entità illegali e criminali all’interno delle istituzioni.
La credibilità e l’autorevolezza di un candidato dovrebbero essere necessariamente dimostrate non soltanto attraverso la reputazione ottenuta grazie all’esercizio della propria professione ma anche mediante azioni ed impegni concreti dedicati al miglioramento della comunità a cui appartiene in tempi antecedenti alla campagna elettorale.
Se questa esigenza non può essere sempre essere generalizzata all’insieme dei candidati, converrebbe per la tenuta stessa della democrazia e di una amministrazione sana ed efficiente che diventasse la regola anziché l’eccezione.
Riguardo alla provocazione usata oggi a manetta specie attraverso i social ma anche ricorrendo ad azioni al limite del ridicolo e comunque effimere, questi mezzi vengono attuati quasi esclusivamente per ottenere una visibilità costante.
Questo modo di fare però comporta uno svuotamento dei contenuti, sostituiti da slogan e frasi ad effetto, riducendo la politica ad uno show da operetta al quale tutti possono accedere ma in cui nessuno dice nulla, perché non è quella l’intenzione di chi realizza simili iniziative.
La cosa positiva è che sembra che l’eccesso di provocazioni o comunque il loro uso anche saltuario cominci ad erodere progressivamente il consenso e l’autorevolezza di coloro che vi ricorrono.
L’aumento delle astensioni e lo sconforto crescente del corpo elettorale dimostrano che la gente comune di questo Paese è profondamente stanca di questi vuoti esibizionismi e che vorrebbe delle risposte concrete sia da parte delle istituzioni che dei politici (anche non eletti) ai suoi gravi problemi quotidiani.
L’elettoralismo da una parte e la provocazione dall’altra vanno esattamente nel senso opposto.
Yvan Rettore